Trasporti e merci post Covid, collegamenti continentali più verdi e moderni

Durante il lockdown, nelle città deserte ma allo stesso tempo piene, i rifornimenti di viveri di prima necessità, come cibo e presidi sanitari, non hanno interrotto i loro flussi. Tir e autocarri hanno solcato autostrade vuote, i porti hanno continuato ad accogliere container e i treni merci, spesso relegati a viaggiare di notte, sono diventati temporaneamente i nuovi padroni delle ferrovie.

Tuttavia, anche il settore del trasporto merci ha dovuto rallentare, complici le contrazioni che la pandemia e il lockdown hanno inevitabilmente imposto sul commercio internazionale. Lo scenario globale è grave: l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) stima una flessione del commercio mondiale nel 2020 che va dal 13 al 32%. Nel frattempo, Eurostat ha comunicato che il Pil dell’Ue nel 1° trimestre del 2020 ha registrato una flessione del 2,6% rispetto all’anno precedente, con Francia, Italia e Spagna tra i Paesi maggiormente colpiti.

Entità e durata della recessione, effetto di choc sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta, depongono per una crisi senza precedenti. Secondo gli studi di McKinsey, una delle maggiori società di consulenza a livello mondiale, i volumi di traffico merci internazionale impiegheranno dai 15 ai 48 mesi per tornare ai livelli dell’ultimo trimestre del 2019. Si tratta di una flessione non totalmente simmetrica, con alcuni settori e determinate località geografiche più colpiti di altre. Sempre secondo la società di consulenza americana, se l’impatto su merci come cibo e medicinali è stato tutto sommato contenuto, a farne le spese saranno soprattutto i settori dei beni cosiddetti durevoli, come quello automobilistico e dell’abbigliamento. Insomma, in seguito allo sgretolarsi della divisione del lavoro internazionale, il mondo della logistica si presta a cambiare volto.

Logistica europea: a che punto siamo?

Il trasporto di merci è il pilastro fondamentale dell’Unione europea. La storia ci insegna che l’unione politica dei Paesi membri si fonda anzitutto sulla costituzione di un mercato unico europeo, dove dazi e tariffe doganali non sono che un vecchio ricordo. Stando al dato più recente (2017) reso noto dalla Commissione europea nello Statistical pocketbook 2019 “EU Transport in figures”, il settore logistica e trasporti nell’area EU-28 ha un valore di 675 miliardi di euro. Il volume di traffico merci movimentato all’interno dell’Unione ammonta a 3731 miliardi di tkm (tonnellate trasportate per chilometro) e impiega 11,7 milioni di persone. La Banca Mondiale ha istituito il “Logistic Performance Index”: uno strumento di benchmarking che tiene conto di diversi parametri di efficienza, qualità, tracciabilità e competenza per valutare le prestazioni di logistica commerciale degli Stati. Nella classifica mondiale del 2018 ordinata secondo questo indice, l’Italia si posiziona al 19° posto, dietro a 10 altri Paesi Ue. Il primato delle performance è tedesco; al secondo posto si classifica la Svezia, seguita da Belgio e Austria, rispettivamente terzo e quarto Paese nel mondo.

A livello aggregato, solo trasporto su strada (50,1%) e via mare (31,5%) coprono più dell’80% del traffico merci complessivo; il trasporto ferroviario si ferma invece all’11,3%.

Sulla dotazione stradale e ferroviaria è interessante guardare al confronto tra Italia, Germania, Spagna, Francia e Regno Unito, a cura di Confcommercio. La questione infrastrutturale non è infatti tanto un problema di diffusione ed estensione, quanto più un tema di accessibilità. Esattamente in questo senso è possibile mappare i Paesi membri secondo un indice di accessibilità multimodale merci, dove per multimodalità si intende che la merce viene movimentata combinando diverse mezzi di trasporto. Catene logistiche multimodali efficienti – anche in termini energetici – sono fondamentali per innestare corridoi merci ecologici all’interno dell’Unione. Qui i dati tracciano l’area più performante tra Regno Unito, Paesi Bassi, Germania, Francia e Belgio.

Guarda qui il grafico.

In linea con la tendenza mondiale, per cui il 75% delle merci viene movimentato su ruota, la strada resta la modalità logistica prevalente. Secondo il dossier di aprile 2020 dell’Associazione nazionale filiera industria automobilistica, la flotta di autocarri medi-pesanti in circolazione a fine 2018 nell’Ue conta 6,6 milioni di veicoli, che impiegano circa 2,38 milioni persone, generando un fatturato di 337 miliardi di euro. Lo stock più grande è polacco (con il 15,8% di tutti gli automezzi), prima delle dotazioni di Germania (il 12,6%) e Francia (12,5%).

Le sfide: più sostenibilità…

Come conclude la Corte dei conti europea in una relazione del 2018

l’allargamento dell’UE da 15 a 28 Stati membri ha modificato le catene logistiche e i modelli geografici del commercio, portando in primo piano la sfida strutturale di un rapido sviluppo dell’infrastruttura di trasporto dell’Ue […]. La strada, che è il modo di trasporto più flessibile, si è adattata senza problemi alla nuova realtà, mentre le ferrovie, per esempio, richiedono sforzi più intensi per modernizzare e sviluppare reti e collegamenti”.

Alla luce di questo fatto, la questione della decarbonizzazione si fa complicata:

“Attualmente il mercato non offre incentivi sufficienti per incoraggiare gli utenti a passare dalla strada ad altri modi di trasporto, che restano meno competitivi dal punto di vista economico”.

La preferenza per il trasporto su strada non è casuale. Il vantaggio in termini di flessibilità, affidabilità, prezzi, tempi e consegna porta a porta non incentivano a sufficienza il meno inquinante trasporto su rotaia. Questo perché il sistema dei prezzi attualmente non riesce a internalizzare le esternalità negative prodotte dal trasporto su strada: come incidenti, emissioni di gas a effetto serra, inquinamento atmosferico e rumori, che comportano un costo sociale ed economico.

Questa situazione ha però degli effetti devastanti per l’ambiente: sempre la Corte dei conti europea riporta che il vettore stradale sia responsabile del 72% delle emissioni prodotte dal settore trasporti. In questo senso una relazione speciale della Corte dei conti nel 2019 sottolineava l’esigenza di un sistema di tariffazione stradale che tenesse conto non solo di “chi consuma paga”, ma anche di “chi inquina paga”. Altro tema di rilievo è la sicurezza legata al trasporto stradale. Nell’ultima relazione del Consiglio europeo per la sicurezza dei trasporti si legge che il 25% delle morti in incidenti stradali vedono il coinvolgimento di veicoli merci.

…e più infrastrutture

La creazione di un mercato unico dipende da una rete infrastrutturale capace di collegare efficacemente i Paesi del vecchio continente. A questo proposito l’Unione europea ha sin da subito promosso lo sviluppo di una rete transeuropea di trasporto (denominata Ten-T), in grado consentire la circolazione rapida e agevole delle persone e delle merci in tutto il territorio dell’UE. Una rete infrastrutturale da completare entro il 2030, che, secondo una valutazione della Commissione europea, dovrebbe arrivare a comprendere fino a 138.072 km di linee ferroviarie, 136.706 km di strade e 23.506 km di vie navigabili interne.

Un obiettivo che si è rivelato ambizioso e complesso. Il progetto della rete Ten-T deve fare i conti con una serie di problematiche che ne rallentano la formazione. Citando l’analisi panoramica della Corte dei conti europea:

Nell’ambito dell’Unione europea il tasso di sviluppo delle infrastrutture non è uniforme e la loro qualità e disponibilità è ancora insufficiente, soprattutto nelle regioni orientali”.

Sempre secondo la Corte dei conti, i maggiori problemi per il raggiungimento di un sistema infrastrutturale unificato riguardano la pianificazione, il finanziamento e il monitoraggio di questi grandi opere.

Problemi come la mancanza di coordinazione nella fase di progettazione tra gli Stati membri intralciano uno sviluppo omogeneo della rete. Spesso, infatti, gli interessi nazionali la fanno da padrone. Per quanto riguarda i costi di finanziamento, gli alti esborsi necessari per questo tipo di investimenti rischiano di essere confliggenti con i limiti di spesa del settore pubblico. Infine, mancano un adeguato monitoraggio (spesso i costi lievitano ben oltre le aspettative) e una valutazione sistematica dei progetti. Le analisi costi benefici vengono di rado applicate e, quando vengono tirate in ballo, spesso sono influenzate da interessi politici; così si corre il rischio di sprecare risorse.

Fonte: BUSINESS INSIDER ITALIA

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