Tra crescita e inflazione il futuro che ci aspetta

Sono attendibili le rosee stime della Commissione e di altri organismi internazionali sull’economia italiana? In tempi tanto incerti è difficile fare previsioni. Ma è probabile che l’inflazione duri più a lungo di quanto sostengono le banche centrali.

Previsioni difficili

L’11 novembre, la Commissione europea ha rivisto di nuovo al rialzo le stime sulla crescita europea e soprattutto italiana. Secondo le nuove previsioni, il Pil dell’Italia dovrebbe aumentare del 6,2 per cento quest’anno (oltre un punto in più di quanto previsto la scorsa estate) e del 4,3 per cento il prossimo. Ugualmente positive sono le stime sull’inflazione, che non dovrebbe allontanarsi troppo dal 2 per cento, e sul debito pubblico, che si ridurrebbe dal 155,6 per cento del 2020 al 151 per cento del 2023.

La questione, tuttavia, è quanto siano attendibili queste rosee previsioni, che per altro non si discostano troppo da quelle formulate dagli altri principali istituti di ricerca internazionali, quali il Fondo monetario internazionale (Fmi) e l’Ocse, o prodotte dalla Banca centrale europea e dal governo.

L’interrogativo è legittimo alla luce delle difficoltà che hanno avuto tutti i previsori nell’anticipare la vigorosa ripresa economica mondiale e la forte crescita dei prezzi che si registra oggi. Ancora lo scorso marzo, l’inflazione americana era stimata sotto il 2 per cento, mentre ora viaggia sopra il 6 per cento. Certamente, in una situazione eccezionale e particolarmente incerta come quella attuale, dove variabili sociosanitarie giocano un ruolo importante, elaborare previsioni attendibili non è una missione semplice.

Tuttavia, si ha l’impressione che stime di natura essenzialmente estrapolative non aiutino molto a prevedere il futuro in un momento di forti cambiamenti. 

Se pochi, sulla base delle esperienze pandemiche passate e dei periodi post-bellici, erano riusciti ad anticipare una intensa crescita economica, nessuno aveva messo in conto un’esplosione inflazionistica della portata di quella attuale.

La fiammata dell’inflazione trova la sua ragione nella forte domanda, dovuta ai risparmi forzosi provocati dai lockdown e nelle politiche economiche straordinariamente espansive, ma soprattutto nei vincoli all’offerta. La rottura delle articolate catene produttive costruite negli scorsi decenni, i crescenti ostacoli al commercio internazionale (blocco dei porti, carenza di navi e di autisti di tir, politiche commerciali protezionistiche, tensioni geo-politiche), ma anche i cambiamenti dei gusti dei consumatori e la scarsità di manodopera, causata da nuovi modelli di vita, hanno provocato vincoli all’offerta di beni (più che di servizi), che si sono scaricati sui prezzi. In un mondo che è cambiato velocemente è anche diventato più difficile per i produttori pianificare le loro attività.

Quanto durerà?

Ora il dibattito è incentrato su quanto sia temporanea l’ondata inflazionistica.

Recenti studi hanno mostrato che il numero di beni e servizi che hanno registrato aumenti dei prezzi è stato sinora relativamente limitato (segno che l’inflazione potrebbe essere temporanea), anche se si sta espandendo.

Tuttavia, le variabili cruciali per rispondere alla presunta perniciosità della crescita dei prezzi stanno nella presenza di meccanismi di indicizzazione, che furono alla base dei fenomeni inflazionistici degli anni Settanta, e nella formazione delle aspettative.

I meccanismi d’indicizzazione salariali sono stati via via smantellati negli ultimi quarant’anni e oggi non rappresentano più una minaccia per spirali inflazionistiche.

Le aspettative hanno assunto, invece, un ruolo predominante nel meccanismo di formazione della spesa e dell’inflazione. Se infatti i lavoratori si metteranno in testa che l’inflazione non è solo temporanea cominceranno a chiedere aumenti salariali che gli imprenditori accetteranno poiché pensano di poterli scaricare sui prezzi di vendita. Analogamente, di fronte alla prospettiva di continui aumenti dei prezzi, i consumatori anticipano i loro acquisti o, più spesso, si spaventano e cominciano a risparmiare per mantenere la loro ricchezza reale.  

A partire dagli anni Ottanta le banche centrali hanno accumulato un’enorme credibilità in termini di stabilità dei prezzi, grazie anche all’indipendenza dalle forze politiche che si sono guadagnate. Ora però, la loro credibilità appare difficile da difendere perché l’enorme accumulo di debito pubblico frena i loro margini di manovra. Se aumentassero repentinamente i tassi d’interesse rischierebbero di rendere il debito di alcuni paesi insostenibile.

Inoltre, ci siamo appena lasciati alle spalle la peggiore recessione dell’ultimo secolo e non siamo ancora usciti dalla pandemia. Quindi i costi di una nuova recessione sarebbero altissimi.

Infine, l’aumento dei tassi d’interesse poco può fare di fronte a un’inflazione che in larga misura dipende da fattori di offerta. Ecco allora che le banche centrali, cercano di posticipare una restrizione monetaria e tentano invece di controllare le aspettative attraverso la retorica.

Si spiega così la petulanza con la quale ribadiscono che l’inflazione attuale è solo temporanea, sperando in tal modo di influenzare le aspettative di famiglie e imprese. Mai come in questo momento tornano in mente le parole di Friedrich Nietzsche “Il futuro influenza il presente tanto quanto il passato”.

DI RONY HAMAUIIL 18/11/2021 Da La Voce.info

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