Fornitori in campana, la parola-chiave è «volatilità». Vuole dire che le grandi aziende capofiliera hanno iniziato «una riconfigurazione del parco fornitori», come viene definita in uno studio del Boston Consulting Group. I dati: solo l’8% delle imprese non ha intrapreso azioni rilevanti mentre il 75% ha incrementato il numero dei fornitori, il 46% ha rilocalizzato una parte delle fonti in aree più vicine e — udite udite — «il 38% ha eliminato i fornitori meno performanti o meno liquidi: una vera rivoluzione che ha notevolmente accentuato le tendenze già emerse nel 2021». Il report del Bcg dal quale emerge questa «giostra» dei fornitori è dedicato all’evoluzione delle supply chain e si basa su una ricerca condotta su un campione rappresentativo di grandi medie aziende italiane (largo consumo, beni industriali, farmaceutica, telecomunicazioni ed energia) per rilevare e analizzare i cambiamenti intercorsi negli ultimi 12-18 mesi. Sostiene Paolo Saccomano, partner e associate director di Bcg, che «se fino a qualche anno fa le catene di fornitura appassionavano solo gli addetti ai lavori, oggi hanno assunto un ruolo sempre più importante nelle agende dei leader aziendali di tutto il mondo». Gli choc esogeni si sono sommati alle implicazioni della transizione energetica e digitale. Risultato: «Una volatilità nettamente in aumento, destinata a rimanere tale per un tempo che nessuno è in grado di prevedere con precisione». Il primo tema riguarda il lead time di fornitura ovvero il tempo che intercorre dall’ordine alla consegna e registra purtroppo un netto peggioramento dell’affidabilità delle consegne dei fornitori. I tempi di evasione degli ordini ai clienti sono aumentati per il 75% delle imprese mentre il livello di affidabilità del servizio erogato ai clienti è peggiorato nel 58% dei casi e il 42% degli intervistati ha lamentato episodi di esaurimento delle scorte di alcuni prodotti finiti. Il peggioramento di cui sopra è stato avvertito più dalle imprese situate a monte delle catene del valore rispetto a quelle situate a valle (80 contro 46%). Poi rispetto al 2021 si sono acuiti i problemi che avevano interessato i trasporti sia sulle tratte oltremare che su quelle terrestri. E il riflesso è stato un aumento dei costi logistici sul fatturato per il 78% delle imprese coinvolte nell’indagine Bcg a fronte di un 69% che ha visto crescere l’incidenza del costo dei materiali sul valore totale della produzione. «È interessante però annotare — aggiunge Saccomano — come per il secondo anno consecutivo si sia registrata una tendenza all’aumento delle scorte. Il 50% delle aziende le ha aumentate contro solo un 16% che le ha diminuite». Magazzini più forniti La scelta della ridondanza — magazzini più forniti per far fronte ai picchi improvvisi di domanda o a interruzioni temporanee della supply chain — ha portato ad ascoltare il mercato e ad aumentare il numero dei fornitori, a creare delle alternative in concorrenza (per ora indiretta) tra loro e questa opzione è stata adottata da 3 grandi aziende su 4. La seconda azione intrapresa sul parco fornitori è stata quella di spostare una parte delle forniture da aree geografiche lontane a Paesi più vicini, il cosiddetto nearshoring che già aveva trovato evidenze in altre ricerche (come quella della Fondazione Nordest). Dal quasi monopolio dell’Estremo Oriente alla Turchia o ai Paesi rivieraschi dell’Africa, per fare un esempio scontato. Ma queste azioni non contrastano con un’opera di selezione, anzi. I fornitori meno puntuali o meno liquidi vengono messi alla porta e questo vale non solo per i Paesi lontani ma anche Italia su Italia. È quella che il report di Bcg chiama «gestione del rischio». «I primi a percepire un segnale di sveglia — spiega Saccomano — sono stati i fornitori B2B, quelli a monte delle catene. Si sono posti seriamente il problema di cosa fare nelle loro supply chain alla ricerca di trasparenza e condivisione di informazioni. Poi i clienti finali hanno cominciato a mappare con grande determinazione e in profondità l’universo dei fornitori». Da qui la simulazione/pianificazione di scenari alternativi tra loro e l’acquisizione in azienda di figure professionali specifiche. «Per farla breve si è capito che la fluidità delle forniture faceva la differenza tra il successo e l’andare gambe all’aria». Pmi e startup, chi entra e chi esce Ma l’insieme di questo processo, di questa piccola rivoluzione culturale nell’approccio al tema delle supply chain — dopo 20 anni di relativa stabilità — finirà per generare nella fornitura italiana un «effetto porte girevoli» o peggio una selezione darwiniana che metterà fuori gioco le Pmi meno puntuali nelle consegne e meno disposte a condividere le informazioni con i capo-commessa? «Come in tutti i periodi di grande cambiamento, bisogna mettere in conto un’accentuazione della selezione — replica Saccomano —. Chi resta fermo corre rischi maggiori. Stiamo parlando di un processo che contiene opportunità ma anche minacce. È anche vero che a fronte dell’uscita dal mercato di qualche Pmi c’è la possibilità che subentrino nella supply chain le tante start up che stanno fiorendo e che interpretano sicuramente meglio sia la transizione digitale che quella ambientale». E infatti dall’indagine emerge come la spinta verso supply chain più sostenibili sul lato ecologico abbia registrato un’accelerazione in omaggio al cosiddetto Scope 3 ovvero la riduzione delle emissioni di Co2 originate dalle catene di fornitura. Aziende al bivio Questi cambiamenti che attraversano tutte le dimensioni delle imprese italiane come sono percepiti e tematizzati dal sistema confindustriale? «La prima novità evidenziata da molte ricerche e anche dagli input che ci forniscono le aziende associate è quella dello spostamento da alcune aree geografiche — risponde Alessandro Fontana, direttore del Centro Studi Confindustria —. Le imprese si stanno dando soluzioni alternative che possono variare da settore a settore e non sono tutte riconducibili allo schema del nearshoring. L’industria della ceramica, per esempio, è stata costretta a cercare nuova fornitura di argilla a causa della guerra in Ucraina e si è rivolta all’India. Al contrario nella farmaceutica, dove i principi attivi sono prodotti in India e Cina, le nostre multinazionali hanno attuato un back up di fornitura che ha interessato altri Paesi e anche un parziale reshoring in Italia». Però, avverte Fontana, bisogna adottare molta cautela in sede di analisi perché si tratta di processi in accelerazione, ma non facili da fotografare con gli strumenti statistici. Se infatti tutte le indagini parlano di nearshoring i dati ufficiali dell’Istat sulle importazioni segnalano ancora limitate discontinuità da Paese a Paese e di conseguenza si genera la difficoltà di individuare una tendenza netta e univoca. C’è un disallineamento tra percezione e dati ufficiali. Quanto poi ai movimenti Italia su Italia — fornitori licenziati e fornitori assunti — non ci sono strumenti in grado di fotografarli che non siano le ricerche ad hoc, come quella del Boston Consulting Group. Spiega Fontana: «Ne sapremo sicuramente di più con il Censimento delle imprese che si è appena chiuso, i cui dati avremo in settembre. Noi come Csc realizziamo costantemente focus group con gruppi di 40-50 imprese e da lì emerge la costante ricerca di altre fonti di fornitura sospinta, come è ovvio, dalla transizione ambientale e dai miglioramenti della tecnologia». La selezione darwiniana delle Pmi non avviene subito, secondo il direttore del Csc, prima si testano attentamente le alternative per un sufficiente lasso di tempo e poi si procede al taglio. «Non ultimo, bisogna tenere in debita considerazione un concetto di filiera che appare confuso, non per tutte le attività è facile ricostruire i flussi di produzione. Molte attività sono trasversali a più filiere e questo rende più difficile il lavoro di analisi». Le porte girevoli delle supply chian vanno dunque monitorate, rappresentano un bivio per le Pmi italiane, per «il piccolo capitalismo dei fornitori», i cui effetti sono ancora largamente imprevedibili. Ora dopo lo choc Covid e le interruzioni dei flussi di materiali prevale nelle scelte della dirigenza delle grandi imprese la politica della ridondanza delle scorte, ma si tratta di un’opzione sicuramente costosa. Sarà anche duratura?
Fonte L’ECONOMIA