China: le “nuove forze produttive” o spettro della sovracapacità industriale

Il nuovo slogan di Xi Jinping riorienta la strategia di sviluppo di Pechino in favore dell’avanzamento tecnologico, su cui si progetta di concentrare gli investimenti. Obiettivo: accentuare la competitività della Cina nell’export. Preludio a nuove tensioni internazionali.

  • di Filippo Fasulo, ISPI

Maggio 2024

Ci sono due concetti che dominano il dibattito attuale sull’economia cinese, e sono strettamente legati l’uno all’altro. Si tratta delle “nuove forze produttive di qualità” e della sovraccapacità industriale (sintetizzato nel dibattito in overcapacity). Nel primo caso si tratta dello slogan emerso a marzo in occasione delle Due Sessioni, ovvero la riunione plenaria annuale del parlamento cinese in cui nel Rapporto sul lavoro del governo vengono definite le linee di priorità economiche per l’anno in corso. Nel secondo ci si riferisce, invece, all’attuale condizione dell’economia cinese e ai suoi effetti sulla bilancia commerciale di tutto il mondo.

Secondo i resoconti ufficiali, il concetto di “nuove forze produttive di qualità” sarebbe stato proposto dallo stesso Xi per la prima volta durante un’ispezione nella provincia dello Heilongjiang nel settembre 2023, per poi entrare nelle linee guida ufficiali del partito attraverso la Conferenza centrale sul lavoro economico di dicembre e le Due Sessioni di marzo. Non si tratta di una località casuale per promuovere una politica di rilancio industriale. L’Heilongjian, infatti, assieme alle altre due province del Nord-Est Liaoning e Jilin, forma la Manciuria e rappresenta la vecchia base industriale ormai in declino. Quest’area vide lo sviluppo della prima industria pesante, durante l’occupazione giapponese negli anni ’30, ma non riuscì a stare al passo dell’evoluzione economica della Cina dopo le riforme dei primi anni ’80. Per questa ragione, fin dal 2003 l’area è stata oggetto di un piano di rilancio industriale che, però, non ha registrato gli effetti sperati. Le tre province del Nord-Est sono da anni quelle che riportano i tassi di crescita più bassi in tutto il Paese, frenate da una base industriale pesante dominata dalle inefficienti aziende di Stato.

Rilanciare l’industria in quella parte di Cina vuol dire, nella retorica di Xi, collegare una vecchia fase dello sviluppo cinese a una nuova, riadattando e aggiornando un vecchio slogan marxista, quello delle “forze produttive”, appunto. Nella sostanza, però, si tratta di portare avanti una politica di innovazione industriale che ha una tradizione ormai quasi ventennale. Nel 2006, infatti, Pechino cominciò a promuovere con forza politiche industriali volte a migliorare il posizionamento nelle catene globali del valore delle fabbriche cinesi. Questa idea ha attraversato tutte le principali iniziative economiche degli ultimi anni – si pensi al New normal del 2014 che proponeva “più qualità e meno quantità” e alla Strategia della doppia circolazione del 2020 che aspirava a rendere la Cina tecnologicamente indipendente nei settori critici – ma ha avuto un momento di massima visibilità con la celebre iniziativa Made in China 2025 del 2015.

Quel piano prevedeva di innovare l’industria cinese in dieci settori target, nei quali la Cina sarebbe dovuta diventare leader globale e con una sostanziale capacità di produzione autarchica entro il 2025. Made in China 2025 rappresentò uno spartiacque perché mise in chiaro le ambizioni di Pechino e dimostrò che la Cina era in grado di mettere in discussione il primato tecnologico, e dunque economico, dell’Occidente. Come effetto della combinazione di questo piano con il flusso cinese di investimenti all’estero – che raggiunsero il picco nel 2016 – e con la svolta autoritaria di Xi Jinping nel 2017 – che al Diciannovesimo Congresso del Partito comunista cinese (PCC) mise in chiaro la volontà di mantenere il potere per un periodo ben più lungo dei dieci anni del suo predecessore Hu Jintao – si verificò una modifica radicale del rapporto tra Cina e Occidente, che cominciò a vedere la prima più come un rischio che come un’opportunità.

Non a caso, nel 2017 i governi di Germania, Francia e Italia chiesero alla UE di istituire un meccanismo di screening agli investimenti in entrata. Nel 2018 Trump diede avvio alla Trade War, esplicitamente rivolta a contenere i dieci settori di Made in China 2025; nel 2019 la Commissione europea adottò per Pechino la definizione di “partner, competitor e rivale sistemico”. Inoltre, con Made in China 2025 tornarono nel lessico politico internazionale le politiche industriali, l’autarchia tecnologica e le barriere alle tecnologie straniere. A un passo dalla scadenza decennale del 2025, un’analisi del quotidiano di Hong Kong South China Morning Post rileva come più dell’86% degli obiettivi prefissati sia stato raggiunto, nonostante le sanzioni e i dazi imposti da Trump in poi. Questo dato va però pesato settore per settore. Infatti, se per quanto riguarda la produzione di semiconduttori avanzati, lo sviluppo di una rete internet satellitare e l’industria dell’aeronautica intercontinentale c’è ancora strada da fare, in altri la Cina ha ampiamente superato le aspettative. Il fiore all’occhiello è quello delle auto elettriche e delle tecnologie per le energie rinnovabili, per le quali Pechino può vantare oggi il primato mondiale. In vista del decennale del piano, l’accento di Xi sulle “nuove forze produttive di qualità” è così da intendersi come la volontà di continuare con questo modello.

Lo stato di avanzamento della produzione cinese, in sostanza la sua “alta qualità”, viene però oggi associato anche a una massiccia “quantità”. Quello che è successo è che dopo la pandemia, nonostante i proclami sull’importanza dei consumi, la crescita cinese è risultata sempre più dipendente dalla produzione industriale – come conseguenza di investimenti – e dalle esportazioni. Infatti, se da un lato è aumentata la produzione, tra l’altro con un tasso qualitativo superiore rispetto al passato, allo stesso tempo è in calo la domanda interna. Ne risulta che l’eccesso di produzione (overcapacity) viene “scaricata” sui mercati internazionali. Per questa ragione sulla stampa internazionale si parla sempre più spesso di China Shock 2.0. Si tratta di un riferimento a quanto avvenuto dopo l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001 che comportò la concorrenza delle merci cinesi alle industrie americana ed europee, causando processi di deindustrializzazione i cui effetti sono percepibili ancora oggi per le economie coinvolte. La differenza con vent’anni fa sono il tipo di merci cinesi – basso valore aggiunto nei primi anni Duemila, leadership tecnologica oggi – e il fatto che l’economia cinese non sia in grado di assorbire almeno parte di questa crescita industriale. Non si tratta di un fulmine a ciel sereno, ma di una dinamica che era nota almeno dalla seconda metà del 2023 alla luce dell’andamento dell’economia cinese. Come accennato, il gigante asiatico oggi cresce grazie al settore industriale, avendo spostato sulla manifattura gli investimenti prima destinati al real estate, oggi in crisi dopo aver trainato per anni almeno un terzo della crescita del PIL.

Per queste ragioni, il dibattito sull’overcapacity è esploso, tanto da figurare come preoccupazione principale nella chiacchierata telefonica tra Joe Biden e Xi Jinping e da meritarsi un viaggio in Cina del segretario al Tesoro Janet Yellen. Tuttavia, era stata già Ursula von der Leyen, in visita in Cina nel dicembre scorso, a lamentare il peggioramento della bilancia commerciale tra Pechino e Bruxelles. Nei pochi anni dopo la pandemia il deficit europeo è quasi raddoppiato – fino a valori attorno ai 400 miliardi di euro nel 2022 – per poi scendere nel 2023.

Ma per chi segue le vicende della Cina, il concetto di overcapacity non è per nulla nuovo. Il tema della eccessiva capacità produttiva del Paese asiatico, infatti, si era già posto come onda lunga dello stimolo economico del 2008 adottato da Pechino per compensare gli effetti della crisi finanziaria internazionale. Una volta assorbita in infrastrutture e costruzioni nazionali la crescita della produzione di cemento, vetro e acciaio, la Cina aveva dovuto affrontare un lungo percorso di ristrutturazione industriale che ha avuto uno sfogo anche nella Belt and Road Initiative (BRI), in quanto piano rivolto proprio a dare uno sfogo esterno alla sovraccapacità interna. A differenza di oggi, un decennio fa la Cina aveva sia una domanda nazionale in crescita e in grado di assorbire, almeno in parte, quella capacità produttiva, sia l’interesse a rivedere la propria struttura economica per aumentare il livello qualitativo della produzione. Il livello tecnologico di oggi è anche una risposta alle misure adottate per risolvere l’eccesso di capacità e le inefficienze della metà degli anni ’10.

La situazione oggi è strutturalmente differente perché Pechino non interpreta l’eccesso di capacità produttiva come un segno di debolezza e perché Xi Jinping non sembra incline a rivedere in tempi brevi il modello di sviluppo economico cinese. Nelle discussioni tra leader politici, infatti, europei e americani vedono l’overcapacity come il risultato di pratiche distorsive figlie di sussidi industriali scorretti. I cinesi, da parte loro, descrivono l’eccesso di capacità semplicemente come il risultato di una maggiore efficienza del tessuto industriale della Repubblica popolare. Inoltre, l’overcapacity non è uguale in tutti i settori.

Se in quelli “classici”, come cemento, acciaio e vetro si può anche trovare un punto di coordinamento sull’offerta internazionale, c’è profondo disaccordo nei settori delle tecnologie verdi. La sintesi di Pechino è che nel mondo c’è una tale domanda di rinnovabili e auto elettriche che è solo un bene se le aziende cinesi riescono a coprire questa domanda, e a prezzi contenuti. Se poi le aziende cinesi domineranno il settore, sarà solo grazie alla loro migliore struttura operativa. Per europei e americani, invece, il dominio cinese è il risultato di politiche industriali scorrette – prima fra tutte proprio Made in China 2025 – che hanno portato a una dipendenza verso la Cina. Nel clima attuale dominato dal concetto di economic security – ovvero la riduzione delle dipendenze economiche per evitare di trovarsi nuovamente in difficoltà come nel caso del gas dalla Russia – è imperativo creare una produzione interna che metta al riparo dal rischio di coercizione. È proprio per questo che sulle due sponde dell’Atlantico sono tornate le politiche industriali, per creare capacità produttiva interna che metta al riparo dalla dipendenza dalla Cina. Tuttavia, se Pechino investe massicciamente in settori in cui è già leader mondiale, sarà estremamente difficile per Europa e USA riuscire a sviluppare capacità interna, dovendo affrontare una concorrenza cinese insormontabile.

A questo punto, emergono le ragioni per cui Pechino difficilmente tornerà indietro sugli investimenti nei settori avanzati, nonostante crei distorsioni nella bilancia commerciale con il resto del mondo. Investire in questi settori, infatti, permette a Xi Jinping di ottenere un vantaggio strategico nel momento in cui è in corso una competizione tra grandi potenze giocata nel campo della tecnologia e dell’industria. Oggi per ogni Paese è importante ridurre la dipendenza dall’altro e, dove possibile, aumentare la propria capacità di coercizione. Il settore gemello a quello delle rinnovabili sono i semiconduttori, che vedono USA e alleati leader da un lato e cinesi a inseguire dall’altro.

In secondo luogo, l’economia cinese vive un momento di stanca, non potendo contare ancora sulla spinta dei consumi e dovendo rinunciare al real estate, una bolla sempre sul punto di scoppiare. Quindi, gli investimenti nella manifattura sono il modo più semplice per raggiungere gli obiettivi di crescita nel breve periodo. Infine, bisogna considerare che, anche volendo cambiare il modello economico, bisognerebbe intervenire in modo significativo sulla capacità di spesa delle famiglie. Michael Pettis sul Financial Times ha ripresentato la sua consolidata interpretazione sulla capacità industriale cinese: non è tanto eccesso di capacità, quanto piuttosto eccesso di risparmio. In sintesi, le politiche cinesi deprimono i salari per mantenere bassi i prezzi e favorire i produttori. Il risultato è che i cinesi non importano a sufficienza perché non hanno sufficiente capacità di consumo e il surplus commerciale si allarga. Per riequilibrare questa situazione servirebbero scelte radicali di ridistribuzione delle risorse tra produzione e domanda che però potrebbero avere contraccolpi politici che Pechino vuole evitare. Anche perché impegnata nella competizione tra grandi potenze. Le nuove forze produttive sono così un nuovo nome per politiche consolidate che permetteranno a Pechino di rafforzare il proprio posizionamento internazionale, ma che creeranno crescenti tensioni commerciali nei mesi e negli anni a venire.     

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