Dopo le proteste degli esercenti, il Decreto Aiuti ha previsto un tetto del 5 per cento per le commissioni pagate sui buoni pasto destinati ai dipendenti pubblici. È un’ottima notizia per ristoratori e lavoratori, ma comporta qualche onere per il bilancio pubblico.
Le elevate commissioni pagate dagli esercenti sui buoni pasto, hanno suscitato proteste in tutto il settore della ristorazione. Si è sempre più ridotto il numero di esercizi che accettano questo tipo di pagamenti e molti applicano ricarichi e vincoli vari su chi utilizza questo strumento di pagamento.
L’art. 26 bis del “Decreto Aiuti”, recentemente convertito nella legge 91/2022, prevede alcune norme che dovrebbero contribuire a ridurre il costo dei buoni pasto per gli esercenti. In realtà il provvedimento riguarda solo i buoni acquistati dalla Pubblica Amministrazione e formalmente consiste in una piccola modifica del “Codice degli appalti” che comporta uno “sconto incondizionato verso gli esercenti, in misura non superiore al 5 per cento del valore nominale del buono pasto.” Il tetto, per altro, scatterà solo a partire dalle prossime aste. A titolo di confronto, le ultime gare della Consip si erano concluse con ribassi dell’ordine del 20 per cento rispetto al valore facciale dei buoni, che si traducevano in commissioni fino al 30 per cento a carico degli esercenti. E’ anche previsto che “tale sconto incondizionato remunera altresì ogni eventuale servizio aggiuntivo offerto agli esercenti.” Sulla efficacia pratica di quest’ultima disposizione si possono avere dei dubbi, perché i gestori dei buoni restano liberi di “proporre” agli esercenti iniziative promozionali, finanziamenti agevolati, ecc. utilizzando ragioni sociali diverse.
Per i buoni erogati dalle imprese private sarebbe stato oggettivamente difficile intervenire su contratti liberamente sottoscritti dalle parti. Tuttavia è probabile che il tetto fissato per il settore pubblico finisca per calmierare anche le condizioni praticate per tutti gli altri utenti.
Sembrerebbe dunque che la vicenda dei buoni pasto si sia conclusa nel migliore dei modi, ovvero con un significativo alleggerimento degli oneri per gli esercenti; un vantaggio per i dipendenti, che potranno utilizzare i buoni in un numero di esercizi sperabilmente superiore ai 150 mila attuali, e una probabile limatura degli ampi margini di intermediazione delle società emettitrici dei buoni.
Purtroppo le cose non sono così semplici, perché in una economia di mercato i tetti sui prezzi hanno sempre ripercussioni negative sull’ammontare dell’offerta. Anche ammesso che fino ad ora le società emettitrici realizzassero enormi extra-profitti, è difficile che un tetto alle commissioni del 5 per cento consenta loro di offrire servizi alla Pubblica Amministrazione (e alle imprese private) con ribassi dell’ordine di quelli attuali (che sfiorano il 20 per cento). Probabilmente sconti superiori al 2-3 per cento sul valore facciale dei buoni farebbero venire meno la convenienza degli emettitori. Quasi sicuramente, i minori margini di intermediazione si rifletteranno negativamente sull’occupazione del settore, stimata in circa 190 mila addetti dalla Sda-Bocconi. Al limite, con i nuovi vincoli le gare pubbliche potrebbero anche andare deserte.
La relazione tecnica alla legge (pagina 29) prevede che la norma non comporta “nuovi e maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, almeno fino alle prossime gare. Tuttavia, se lo sconto sui buoni passerà da circa il 20 per cento a meno del 5 per cento, in futuro il costo dei buoni per la Pubblica Amministrazione aumenterà almeno del 15 per cento, con un onere aggiuntivo di circa mezzo miliardo l’anno (ipotizzando che ognuno dei 2,4 milioni di dipendenti pubblici che ne hanno diritto – e tra questi non figurano, ad esempio, gli insegnanti – percepisca buoni da 7 euro per 200 giorni l’anno). È certamente una cifra modesta rispetto al totale della spesa pubblica (circa 990 miliardi nel 2021) ma comporta ugualmente un onere che dovrà essere finanziato con aumenti di entrate o riduzioni di spesa. Si rischia pertanto di trasferire il costo delle commissioni sui buoni pasto dal settore commerciale alla fiscalità generale e, in particolare, proprio a carico dei lavoratori che ne usufruiscono.
Le norme sui buoni pasto contenute nel Decreto Aiuti rappresentano indubbiamente un passo avanti nella regolamentazione di un settore che si stava avviando verso dinamiche insostenibili, ma espongono ancora ad alcuni rischi, come la possibile carenza di offerta di buoni nelle prossime gare e un lieve aggravio per le casse della Pa. Una soluzione più efficiente resta quella di trasformare i buoni in semplici voci in busta paga non soggette all’Irpef, come altre forme di welfare aziendale. Il costo per i datori di lavoro (compresa la Pa) sarebbe probabilmente superiore a quello attuale (perché non vi sarebbero sconti sul valore facciale delle erogazioni) e un settore di nicchia subirebbe contraccolpi occupazionali negativi. Tuttavia ci sarebbero significativi risparmi nella gestione dei buoni, che oggi comporta aggravi burocratici ed amministrativi non trascurabili (a cominciare dallo svolgimento delle gare). Inoltre sarebbe una boccata di ossigeno per la filiera della ristorazione.
*L’articolo riporta esclusivamente le opinioni dell’autore e non coinvolge assolutamente le organizzazioni con cui collabora.
DI Enrico D’Elia
agosto 2022
da Lavoce.info