Dopo la grande paura figlia della pandemia e mentre ancora si discute su come affrontare la crisi energetica ed uscire dalla morsa dell’inflazione, si profila un nuovo pericolo: la recessione, pronta a colpire senza riguardi paesi e settori di attività
I primi timidi segnali, come spesso accade, sono arrivati dagli Stati Uniti, a metà di quest’anno. Qualche comunicazione o poco più, ma nessun allarme, basate sull’osservazione che le vendite al dettaglio, corrette per l’inflazione, e pur in presenza di una ripresa produttiva, registravano un rallentamento. Il dato non evidenziava, però, un calo sostanziale nei volumi di trasporto merci e fu accettata la giustificazione che il mercato stava riacquistando un nuovo equilibrio dopo essere stato sconvolto dalle conseguenze del Covid-19. A deporre a favore di questa tesi erano, peraltro, numerosi indicatori, significativi per l’economia statunitense, quali, tra i tanti, l’indice di produzione industriale destagionalizzata, quello relativo alle case in costruzione, l’andamento dei prezzi dell’autotrasporto. Il nostro secolo ci ha però abituato a situazioni molto “liquide”, caratterizzate da repentini cambiamenti di fronte e, non sempre, la lettura dei dati si presta a proiezioni affidabili anche se di breve termine. La situazione macroeconomica degli Stati Uniti nei primi cinque mesi, ad esempio, non teneva ancora conto delle pesanti ricadute del conflitto in Ucraina che, al momento, non erano assolutamente prevedibili nell’entità e nella durata.
Le previsioni del Fmi
In questi giorni, prima decade di ottobre, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha pubblicato il suo World Economic Outlook con le previsioni di crescita in percentuale nei principali paesi nel 2022 e 2023. Il documento costituisce una revisione del precedente, soprattutto per quanto riguarda l’anno prossimo allorché un po’ tutte le economie dovranno aspettarsi una flessione più o meno marcata rispetto alle attese dei governi. A fronte di un PIL mondiale, che a fine 2022 dovrebbe attestarsi su una crescita del 3,2, il 2023, secondo gli analisti del Fondo monetario, non dovrebbe superare il 2,7. Il dettaglio per paese evidenzia che solo due stati, Cina e India, sostengono questa seppur limitata crescita mentre le performance di tutti gli altri sono previste in decremento rispetto all’anno in corso e, addirittura, sotto il dato medio mondiale per l’anno prossimo. In due casi, Germania ed Italia, la previsione ipotizza una caduta del PIL, nel primo caso dello 0,3 e nel secondo dello 0,2. Dati che possono praticamente configurare uno scenario di recessione aggravato da una situazione internazionale deteriorata e scossa da una guerra dai confini incerti e da una crisi energetica senza precedenti. La Germania, comunque, malgrado il sorprendente risultato negativo, può contare su una rendita di posizione attiva grazie ai suoi alti surplus commerciali degli anni precedenti. Più critica la situazione italiana a causa del forte indebitamento e dell’esplosione dei prezzi dell’energia che hanno eroso il positivo saldo degli scambi con l’estero di beni e servizi. Sempre secondo il Fmi, ciò dovrebbe avere negative ricadute anche sui consumi delle famiglie. In questo quadro, si comprende l’importanza del Recovery Plan che appare sempre più il principale, se non l’unico, sostegno degli investimenti nel 2023.
L’impatto sulla logistica
Anche se tecnicamente il quadro mondiale non consente ancora di sancire una situazione di recessione, non crediamo possano essere ignorati i segnali che arrivano da un commercio sempre più globale e che attestano le crescenti difficoltà di chi vi opera. In tal senso una cartina di tornasole è rappresentata dal settore della logistica e, in particolare, del trasporto merci. Un settore che, nel giro di due soli anni, ha visto cambiare più volte segno e dimensione alle proprie attese sia sul piano dei profitti che su quello del ritorno degli investimenti, indispensabili per mantenere competitività. Un esempio significativo, e per questo più volte preso a misura, è quello del trasporto navale passato attraverso lo shock pandemico con la chiusura delle fabbriche e la sospensione delle attività produttive, alla fase della ripresa con i porti bloccati, la carenza di container, i prezzi alle stelle. Oggi si assiste ad un repentino cambio di congiuntura e la domanda si fa fievole al punto da non riuscire a fare carichi completi sulle grandi portacontainer, ora in numero quasi eccedente, al punto da indurre gli armatori a cancellare viaggi. Sta accadendo a Msc, la prima compagnia di navigazione al mondo, su rotte molto trafficate che collegano la California con la Cina, così come al gruppo danese Maersk, e a tutti i giganti della logistica costretti a ripianificare il finale d’anno e prendere le giuste cautele per l’anno prossimo. Difficile trovare le motivazioni di questo veloce calo della domanda che ha preso alla sprovvista anche molti produttori che si ritrovano con i magazzini pieni, frutto in parte della frenesia della ripresa produttiva dopo i lockdown, in parte di una non completa elaborazione dei comportamenti dei consumatori e delle loro reazioni a fronte degli squilibri tra domanda e offert