In Cina senza visto

Salta il visto per entrare in Cina, Pechino aderisce alla convenzione dell’Aja sulla validazione dei documenti e Xi Jinping promette equo trattamento con gli stranieri. Svolte pesanti, dalle conseguenze imprevedibili

di Rita Fatiguso

da Il sole 24ore

La tempesta perfetta della burocrazia cinese è servita. Così, all’improvviso, è piombata su tradizioni ultra consolidate utilizzate come strumento di controllo delle persone e del territorio. Perché sì, è tutto vero.

D’ora in poi, turismo o affari, poco importa: per la Cina non serve più il visto. Inoltre, garante Xi Jinping, le imprese cinesi e straniere giocheranno ad armi pari, specie per l’IP.

Va in soffitta anche il rito consolare per legalizzare i documenti pubblici: ormai, ratificata un mese fa la convenzione dell’Aja, adesso basta un’unica formalità, l’Apostilla. Forse l’era post-burocratica cinese è iniziata per davvero.

Attrarre gli stranieri

Quali siano le ragioni specifiche che legano queste repentine decisioni può essere intuibile, di certo è necessario aprire il Paese anche attraverso il cambio delle regole del gioco favorire l’arrivo di stranieri e al tempo stesso garantire il dialogo con gli stranieri che, al pari dei capitali, ormai preferiscono andare altrove.

Ognuno di questi passi è una svolta enorme, della quale non è ancora intuibile la reale portata. Chi aveva e ha a che fare con la Cina sa di dover far scorta di un’unica virtù: la pazienza. Del resto, parliamo della terra in cui il timbro rosso, il chop, è tutto. Una società esiste se esiste il timbro. Chi possiede il timbro possiede la società. Memorabile la storia del ceo di ARM China, colosso dei chip “incubato” a Cambridge: destituito dal Cda, ma diventato inamovibile perché rifiutava di restituire il sigillo della società che aveva chiuso in cassaforte.

Per i visti la durata breve di 15 giorni e, in via sperimentale, per un anno, non toglie mordente alla svolta. Unilateralmente, la Cina ha deciso l’esenzione dal visto in sei Paesi dal 1°dicembre 2023 al 30 novembre 2024.

I cittadini italiani, francesi, tedeschi, olandesi, spagnoli e malesi in possesso di passaporto ordinario potranno viaggiare in Cina per motivi di affari, commerciali, turismo, visite ai familiari o amici, o transito per un massimo soggiorno di 15 giorni senza bisogno di richiedere un visto d’ingresso.

Così si legge sui siti web dei consolati cinesi. Il che apre scenari nuovissimi. Che fine faranno i Centri visti gestiti all’estero da CITS, gigante del turismo cinese? L’ultimo è stato appena aggiudicato proprio in Francia. Certo cosi si promuove la libertà di movimento di persone e documenti, sicuramente è un atto concreto teso all’apertura della Cina verso il resto del mondo, in particolare verso l’Occidente (o, per lo meno, una parte di essa).

Ovviamente chi non rientra nelle suddette categorie o nel limite di tempo ei cittadini italiani, francesi, tedeschi, olandesi, spagnoli in possesso di passaporto servizio dovranno comunque richiedere un visto d’ingresso per viaggiare in Cina. Ma che succederà se lo straniero per forza di causa maggiore sia costretto a sforare le due settimane? Il versante ordine pubblico è un ulteriore elemento da focalizzare.

Pari opportunità sull’IP

La Cina insiste da tempo sulla pari protezione per le aziende nazionali e straniere. Il presidente Xi Jinping la scorsa settimana durante una riunione del Politburo del Partito Comunista Cinese – il massimo organo decisionale del Paese – ha ribadito che la Cina deve garantire un trattamento legale “completo, aperto e trasparente” alle entità straniere. Il sistema legale cinese dovrebbe “rafforzare la protezione dei diritti di proprietà intellettuale”, ha aggiunto Xi, così come “salvaguardare i diritti e gli interessi legittimi delle imprese straniere”. Pechino deve “creare un ambiente imprenditoriale di prima classe, orientato al mercato, legale e internazionale”, ha aggiunto il presidente.

Le lobby delle imprese statunitensi ed europee hanno avvertito a settembre che la fiducia delle imprese straniere in Cina aveva raggiunto il livello più basso degli ultimi anni, ma segnali di miglioramento si intravvedono dopo l’incontro tra Xi e il presidente Joe Biden nelle scorse settimane. Le imprese statunitensi ed europee hanno denunciato più volte che fare affari in Cina è oggi più difficile che mai per via del quadro geopolitico globale, ma anche per una recente legge anti-spionaggio, le incursioni contro le multinazionali e il trattamento favorevole per i concorrenti nazionali. In un discorso al vertice degli amministratori delegati dell’APEC Xi ha invitato le aziende a investire, promettendo misure “per rendere più facile per le società straniere investire e operare in Cina”.

Oltre la legalizzazione

Infine c’è da registrare in queste settimana la novità dell’archiviazione della legalizzazione dei documenti pubblici civili e commerciali ( atto notarile, estratto del casellario giudiziale, estratto del registro di commercio) emesso in un Paese che non sono esecutivi/applicabili in un secondo Paese se prima non sono stati autenticati – o “legalizzati” – dalla rappresentanza diplomatico-consolare di questo Paese.

Da novembre la Cina ha aderito alla “Convenzione che sopprime la legalizzazione degli atti pubblici esteri”, più comunemente nota come “Convenzione dell’Aja sulle Apostille”.

L’adesione è un’altra svolta notevole perchè riduce la procedura di autenticazione dei documenti stranieri pubblici ad una sola formalità: l’emissione di una postilla (o “apostille”) da parte di un’autorità nello Stato nel quale l’atto pubblico è stato rilasciato.

Dallo scorso 8 marzo 2023 l’ambasciatore cinese nei Paesi Bassi ha presentato lo strumento di adesione della Cina alla Convenzione dell’Aja sulle Apostille, entrato in vigore il 7 novembre 2023, a partire da quella data i documenti ufficiali non dovranno più essere legalizzati, bensì apostillati. Dopo la Cina toccherà al Canada nel prossimo mese di gennaio. Così il numero di Stati contraenti la Convenzione salirà a 125. Ma per Pechino e la sua burocrazia il cambio di passo sarà enorme.

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