Perché l’economia spagnola va fortissimo

Più del doppio della media europea: e una delle ragioni è che sull’immigrazione fanno il contrario di quello che fanno gli altri

Nei giorni scorsi la Commissione Europea ha pubblicato le stime di crescita sui paesi dell’Unione. Il Prodotto interno lordo (PIL) alla fine di quest’anno aumenterà in media dell’1,4%, ma c’è un paese che fa registrare una crescita più che doppia: la Spagna chiuderà il 2025 con un aumento del 2,9%. È un dato di molto superiore a quello di economie più grandi come quella tedesca (+0,2%) o italiana (+0,4%), ma non è una notizia inattesa: la Spagna ha risultati economici positivi da molti mesi e a settembre le agenzie internazionali di valutazione del credito hanno anche alzato le stime sull’affidabilità dei conti pubblici e la gestione del debito. Come ha scritto il Financial Times, quella spagnola è oggi l’economia più sorprendente e performante d’Europa.

I primi dati da cui partire sono relativi al mercato del lavoro. Negli ultimi dieci anni la disoccupazione in Spagna si è dimezzata – anche se è ancora piuttosto elevata, all’11,4% – e in parallelo si è alzato il tasso di occupazione, cioè la quota di persone che cercano e trovano un lavoro, che è intorno all’80%. Più lavoro significa più salari e quindi maggiori consumi, la principale voce del PIL (le altre sono spesa pubblica, investimenti delle imprese e saldo commerciale con l’estero). Gli economisti della Commissione concordano sul fatto che sono i consumi a trainare la crescita spagnola, effetto diretto di un mercato del lavoro che funziona meglio.

A renderlo più efficiente è stata una riforma del 2021 che ha affrontato una delle storiche fragilità del paese: la precarietà contrattuale. Fino ad allora il contratto temporaneo più diffuso era l’obra y servicio, teoricamente destinato a lavori autonomi di durata incerta ma spesso utilizzato in modo esteso e quindi improprio. L’uso dei contratti temporanei è stato da allora limitato a casi molto circoscritti e in parallelo sono stati potenziati i fijos discontinuos, contratti a tempo indeterminato utilizzati per attività stagionali o intermittenti. Il lavoratore mantiene un rapporto stabile con l’impresa, con anzianità, tutele e accesso alla formazione, ma viene chiamato a lavorare solo nei periodi in cui è necessario. A evitare il fenomeno del “lavoro povero” contribuisce poi anche il salario minimo, che per il 2025 è fissato in 1.184 euro lordi al mese.

Oltre che rivedere le norme contrattuali, la Spagna ha investito molto sulla creazione di nuova occupazione: in dieci anni ha speso 6,8 miliardi in misure attive come formazione, incentivi all’assunzione e programmi per l’autoimpiego. Sono attività gestite attraverso una rete di 715 centri per l’impiego distribuiti nelle 17 Comunità Autonome, e coordinate dal SEPE (Servicio Público de Empleo Estatal), l’agenzia pubblica nazionale per l’impiego.

Questo modello decentrato ha consentito una maggiore integrazione tra formazione professionale, imprese e collocamento, anche se non ha eliminato alcuni vecchi problemi. Esistono ancora forti disparità territoriali, e regioni come Andalusia ed Estremadura registrano tassi di disoccupazione molto più alti rispetto a Paesi Baschi o Navarra. Anche la disoccupazione giovanile resta molto elevata e così il part-time involontario (svolto cioè da persone che preferirebbero lavorare a tempo pieno ma non hanno alternative), che è tra i più alti dell’Unione (47,4%).

Negli ultimi anni la Spagna è diventata un paese attraente per le multinazionali straniere. Secondo una ricerca della società di consulenza TEHA – The European House Ambrosetti, negli ultimi dieci anni gli investimenti dall’estero hanno avuto un valore pari a 304 miliardi, molto più di quelli arrivati all’Italia (191 miliardi). In parte questi soldi hanno rafforzato settori tradizionali come l’agricoltura, o ampliato il settore dei servizi, soprattutto quelli bancari e assicurativi. Secondo Diego Begnozzi, il consulente della TEHA che ha curato la ricerca, «hanno anche rafforzato e diversificato il tessuto industriale». Anche se la Spagna resta un paese in cui il turismo è molto importante – nel 2024 ha avuto 94 milioni di visitatori, il dato più alto di sempre –, secondo Begnozzi «si sta molto sviluppando nel settore manifatturiero, e un esempio rilevante è l’automotive». Oggi la Spagna è il secondo paese produttore di automobili in Europa dopo la Germania, con 2,4 milioni di veicoli prodotti nel 2024. Il settore vale da solo il 10% del PIL.

Le imprese spagnole e anche quelle estere sanno di poter trovare manodopera più facilmente rispetto al passato anche per le politiche migratorie degli ultimi anni, che sono state molto flessibili e orientate ai fabbisogni del sistema produttivo.

Il Catálogo de ocupaciones de difícil cobertura consente alle aziende di assumere lavoratori extra-UE durante tutto l’anno, senza attendere quote o “click day”. Questo approccio ha contribuito a una crescita molto rapida della popolazione nata all’estero: dal 2015 al 2024 è salita fino al 18,6% del totale, una delle quote più alte in Europa. La lingua è un fattore in più per favorire l’inserimento di chi arriva, visto che quasi metà degli immigrati proviene dall’America Latina, e questo accelera l’integrazione nel mercato del lavoro. Il paese ha inoltre creato strumenti permanenti di regolarizzazione che trasformano presenze irregolari in lavoratori legali, fuori dalla logica delle sanatorie e delle misure eccezionali.

Una spinta importante alla crescita spagnola è arrivata anche dal programma europeo Next Generation EU, di cui la Spagna è uno dei principali beneficiari. Tra finanziamenti a fondo perduto e prestiti a tasso agevolato entro il 2026 otterrà 163 miliardi, la quota più alta dopo quella dell’Italia. Secondo Randolph Bruno, che insegna Economia internazionale all’università Cattolica di Milano, questa spesa «si traduce in una quota del PIL che si può quantificare tra l’1,2% e l’1,7%, secondo le differenti stime di enti come la Banca Centrale spagnola e Eurostat».

Per fissare obiettivi e avanzamento del Next Generation EU, la Spagna ha scelto un modello molto partecipato. Ha costituito degli organismi di coordinamento di cui fanno parte, oltre alle amministrazioni centrali e locali dello stato, anche le organizzazioni delle imprese e dei lavoratori, cosa che ha aumentato la diffusione e la trasparenza degli interventi.

Molta parte di questi soldi è stata indirizzata verso il settore delle energie rinnovabili, da cui arriva oltre la metà del fabbisogno energetico nazionale, una quota molto più alta rispetto alla maggior parte dei partner europei. Questa diversificazione delle fonti ha ridotto la dipendenza da petrolio e gas, e ha abbassato i costi: un megawattora di energia costa in Spagna 61 euro, molto meno che in Germania (83 euro) e in Italia (109 euro). Questo rende più facile la vita a chi voglia avviare un’attività economica, visto che la bolletta energetica è una delle principali voci di costo di molti settori industriali. Come dimostra il blackout dello scorso aprile, il paese ha però un grosso problema di aggiornamento delle reti di trasmissione e questo richiederà in futuro investimenti costosi in infrastrutture.

Secondo Carlo Altomonte, che insegna Economia dell’integrazione europea all’Università Bocconi di Milano, «sarà importante verificare quanto della spesa di Next Generation EU si sarà tradotto in crescita strutturale e quale sarà la contrazione del PIL spagnolo al termine del programma di investimento». Il problema non sarà tanto continuare a crescere ma «assicurare una crescita uniforme ed equa tra le varie aree del paese», dato che la struttura decentralizzata dello stato può distribuire in modo differente i benefici della crescita. Un altro punto critico di attenzione sarà l’aumento della produttività del lavoro, cioè la quota di valore aggiunto per ora lavorata. In Spagna è da sempre più bassa che in altri paesi europei perché la dimensione delle aziende è ridotta e quindi gli investimenti in tecnologia e in innovazione dei processi produttivi sono più contenuti che altrove.

A questo si aggiunge l’instabilità politica. Il primo ministro socialista Pedro Sánchez, che governa dal 2018 e che ha fatto approvare buona parte delle misure di cui ha beneficiato l’economia, è particolarmente debole a causa di una serie di scandali e della litigiosità della sua coalizione. Le prossime elezioni sono previste per il 2027, e al momento secondo i sondaggi la situazione politica è molto frammentata.

Fonte Il Post Economia

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