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Made in China: onde d’urto nel mondo

La marea, alla fine, è arrivata: il made-in-China si è riversato in Europa, dopo aver trovato la strada verso il mercato americano sbarrata dai dazi fissati oltre il 40%. Il grande timore dei governi europei si è avverato. Migliaia di container e pacchi cinesi si dirigono verso il continente, vista la domanda azzoppata dalle tariffe introdotte da Donald Trump. La macchina produttiva cinese, infatti, non si è fermata davanti al protezionismo americano, ma ha semplicemente trovato altre vie. Nel 2025 il surplus commerciale di Pechino ha superato – già a novembre – la soglia dei 1.000 miliardi di dollari. È il primo Paese nella storia a riuscirci, spinto anche dal deciso deprezzamento del renminbi.  

A novembre l’export mensile verso gli Stati Uniti crollava del 28,5% rispetto a un anno fa, mentre quello verso l’UE era del 14,8% più alto. E dall’inizio dell’anno segna +8,1. Abbigliamento, elettrodomestici, arredamento, materie prime industriali e prodotti ad alta tecnologia: queste sono le categorie di prodotti per cui è scattato l’allarme rosso. I dati sono raccolti dalla task force posta dalla Commissione europea a sorvegliare i flussi dalla Cina. Il dirottamento delle merci e dei contratti è generalmente accompagnato da una riduzione dei prezzi: le società cinesi, infatti, sono disposte a tagliare i listini pur di disfarsi dei propri prodotti, ormai invendibili negli Stati Uniti. Negli ultimi 12 mesi, fino a ottobre, le importazioni di robot industriali dalla Cina sono aumentate del 174%, mentre i loro prezzi sono diminuiti di un terzo. Le importazioni di circuiti integrati sono aumentate dell’84%, con prezzi in calo del 6. Le importazioni di automobili sono più che raddoppiate, mentre i prezzi sono diminuiti del 15%. E così le aziende europee si trovano colpite dai dazi americani non solo direttamente per le vendite più basse negli USA, ma anche indirettamente sul mercato domestico invaso dal made-in-China. Si tratta invece di buone notizie, almeno per ora, per i consumatori che possono godere di maggiore concorrenza e prezzi più bassi. Secondo gli economisti della BCE, la marea cinese potrebbe rallentare l’inflazione di 0,15 punti percentuali nel 2026.  

Il presidente francese Macron, in visita da Xi Jinping, ha chiesto un cambio di approccio a Pechino: “Ho tentato di spiegare ai cinesi che con il loro surplus commerciale stanno uccidendo i loro stessi clienti”, ha spiegato il presidente francese. Sul tavolo ci sarebbero dazi europei sui prodotti cinesi, sull’esempio americano. Per l’Unione europea non sarà però semplice seguire la strada degli USA. La prima ragione è che l’UE è molto più integrata economicamente con la Cina di quanto lo siano gli americani: la Cina è un mercato di sbocco essenziale per le merci europee. Se dovesse chiudersi, le ripercussioni per il manifatturiero tedesco sarebbero gravi, tanto da mandare in crisi l’intero continente. La seconda ragione sta nella dipendenza europea dalla tecnologia green cinese: la stragrande maggioranza di pale eoliche, batterie e pannelli solari che installiamo quotidianamente è made-in-China. Sono prodotti irrinunciabili se l’UE intende proseguire nel suo percorso di decarbonizzazione (un problema che gli Stati non si pongono più).  

Il mega-surplus cinese non agita solo politici e imprenditori europei. Africa, America Latina e Sud-est asiatico hanno registrato forti incrementi dell’export da Pechino. E la marea miete vittime anche nei Paesi in via di svilupposecondo il New York Times, negli ultimi due anni più di 300mila indonesiani avrebbero perso il proprio lavoro nelle fabbriche di abbigliamento a causa dei prodotti cinesi ancora più a basso prezzo. D’altra parte, le aziende cinesi in Paesi come l’Indonesia spesso aprono stabilimenti, in modo da evitare le tariffe americane. E ciò che accade da anni in Malaysia, dove hanno trovato sede decine di produttori cinesi di pannelli solari.  

Ma il Politburo del Partito comunista sa che la sovrapproduzione rimane un tallone d’Achille: nell’ultimo incontro ha infatti chiesto “un maggiore coordinamento tra l’economia interna e le politiche commerciali”. Se infatti minacce come quelle francesi alla fine si concretizzassero, la Cina perderebbe una delle poche valvole di sfogo della propria crescita economica.  

ISPI Istituto per gli Studi di Politica Internazionale

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