La crisi di governo in Germania riporta in primo piano il momento difficile che sta attraversando l’industria europea. La crisi industriale sta colpendo la Germania in maniera nettamente più forte rispetto ad altri paesi europei.
Tra il 2019 e oggi, la Germania ha perso oltre il 9% della sua produzione industriale. Anche altri paesi dell’Europa occidentale, come Francia (-5%) e Italia (-3,5%), non se la passano bene. Invece in Europa centro-orientale (per esempio in Polonia e Repubblica Ceca), in Grecia, e in alcuni paesi del centro-nord (tra cui Belgio e Danimarca) si registra addirittura una crescita della produzione.
Il principale indiziato per spiegare l’accelerazione della crisi è il costo dell’energia. Malgrado l’apice dei prezzi toccato nel 2022 sia ormai lontano, la “nuova normalità” di oggi sono prezzi del gas di quattro volte superiore rispetto a quelli degli americani. Con ovvie ricadute anche sui prezzi dell’elettricità.
Un altro indiziato è sicuramente Pechino. Se a inizio secolo per molti produttori europei la Cina rappresentava principalmente un enorme nuovo mercato in crescita, oggi è diventata anche uno dei loro principali competitor. Pechino “scala” le catene globali del valore, sottraendo quote di mercato ai produttori europei. Un esempio lampante di questa tendenza è il settore automobilistico.
Un terzo indiziato è l’assenza di significativi stimoli fiscali a favore dell’industria. Tra i grandi attori europei, Italia e Francia non se li possono permettere a causa dei loro elevatissimi livelli di debito pubblico. Ma anche in Germania, dove il debito pubblico è basso e addirittura in discesa, reticenze ideologiche fanno sì che gli stimoli fiscali restino fortemente limitati.
Risultato? Crisi, che per l’UE è tutt’altro che finita. L’indice di stress industriale, che oltre a catturare il contesto odierno anticipa le dinamiche future, sottolinea un peggioramento della situazione per l’industria europea, complice anche il “razionamento” degli investimenti per via degli alti tassi d’interesse degli ultimi anni.
Infine, proprio l’interdipendenza tra l’industria cinese e quella europea obbliga alla cautela quando si discute di come arginare la concorrenza sleale dalla Cina. Così, quando a ottobre i governi europei hanno approvato l’imposizione di dazi sulle auto elettriche prodotte in Cina, l’Europa si è spaccata: Francia e Italia hanno votato a favore, mentre Germania e Ungheria hanno votato contro.
Nell’ultimo anno e mezzo si è parlato molto della frenata della produzione industriale europea. Anche delle cause molto si è detto, e ci torneremo nei punti successivi. Ciò che si sta raccontando poco, invece, è che la crisi industriale non sta colpendo tutta l’UE con la stessa intensità e nelle stesse modalità.
Anzi, a ben guardare, ancora oggi l’Unione europea nel suo complesso continua a produrre più di quanto facesse nel 2019, prima dell’arrivo della pandemia (+1,8% nell’anno tra settembre 2023 e agosto 2024). Ma la trazione si sta spostando dall’Europa occidentale verso quella centro-orientale.
I paesi che stanno soffrendo di più includono naturalmente la Germania (oltre –9% rispetto al 2019), ma anche il Portogallo (-7%). Seguono Francia (-5%) e Italia (-3,5%). C’è poi tutta una intera fetta del continente in cui la produzione industriale ha solo di recente rallentato, e su livelli comunque superiori rispetto a cinque anni fa. Tra questi meritano menzione speciale Paesi grandi come la Polonia (+23%), la Grecia (+21%), il Belgio (+13%) e i Paesi Bassi (+9%).
Un fattore che ha contribuito ad accelerare la crisi industriale europea è stata la crisi energetica seguita all’invasione russa dell’Ucraina. L’invasione ha infatti segnato la fine di una partnership economica che aveva permesso a un continente povero di risorse energetiche di rifornirsene a prezzi competitivi, dimenticandosi a tratti della lontananza, ideologica e non solo, tra Bruxelles e Mosca.
A seguito dell’invasione la Russia ha infatti ridotto le sue forniture di gas verso l’Europa di circa due terzi e l’UE si è trovata costretta a trovare molto rapidamente forniture alternative, più costose. Questo ha comportato un aumento del prezzo del gas naturale di oltre 12 volte rispetto alla normalità precrisi e, una volta usciti dalla crisi, ha portato i prezzi a stabilizzarsi su prezzi, comunque, ancora più che doppi.
Essendo l’energia uno dei principali input produttivi, una sua variazione di prezzo si ripercuote direttamente sulla struttura dei costi delle aziende andando a ridurne la competitività. Soprattutto se paragonate ai concorrenti americani, che non hanno risentito dello shock in egual misura. Tanto che, se prima della crisi il prezzo del gas naturale in UE era circa doppio rispetto a quello registrato negli Stati Uniti, oggi si è assestato su livelli quadrupli – confermando gli effetti di medio periodo sul costo della produzione e sulla competitività.
Un secondo ordine di ragioni deriva non più da una criticità interna del continente europeo (siamo poveri di risorse), ma dalle pressioni economiche che arrivano da attori esteri, e dalla Cina in particolare. L’industria automobilistica europea offre un ottimo esempio per capire.
Per un quarto di secolo, la Cina è stata un gigante in forte espansione economica che costituiva una grossa sfida, ma presentava anche grosse opportunità. Da un lato, Pechino è di fatto diventata la “fabbrica del mondo”: ma sui mercati internazionali ha invaso soprattutto i primi anelli a basso valore aggiunto delle catene globali, come per esempio l’industria tessile. Di converso, la crescita del mercato cinese ha permesso a grandi produttori automobilistici europei di penetrare nel mercato cinese, con esportazioni di auto verso la Cina cresciute fino a 25 miliardi di euro l’anno.
Negli ultimi cinque anni, però, qualcosa è rapidamente cambiato. La Cina ha iniziato a “scalare” le catene del valore, ospitando aziende cinesi o estere che producono sempre più beni che possono rivaleggiare in qualità con quelli europei anche in settori decisamente più avanzati, come appunto quello delle auto. Il risultato è che le importazioni di auto dalla Cina sono esplose in valore, passando da meno di 1 miliardo di euro nel 2019 a oltre 15 miliardi del 2023.
Così, mentre il mercato cinese per le aziende europee costituisce ancora un importante punto di sbocco, ma è in decisa contrazione, l’espansione cinese nel mercato europeo va a sottrarre quote di mercato ai produttori del nostro continente. Risultato: la produzione frena.
Un terzo problema per l’Europa è poi quello del sostegno pubblico ai settori in difficoltà. Paesi altamente indebitati come quelli europei non hanno molto spazio fiscale per immaginare stimoli economici di portata significativa, a maggior ragione dopo che la pandemia ha costretto molti governi a mettere mano al portafoglio, facendo ulteriormente esplodere i livelli di debito.
E se è vero che il debito pubblico dell’Eurozona (89% del PIL) è oggi ancora nettamente inferiore rispetto a quello degli Stati Uniti (122%), quello italiano è vicino al 140% mentre il FMI prevede che quello francese crescerà dal 97% del 2019 al 124% entro il 2029.
L’unico paese con spazio per compiere manovre fiscali espansionistiche è anche quello che dal punto di vista industriale è oggi messo peggio: la Germania. Berlino è talmente restrittiva sull’uso delle proprie finanze pubbliche che negli ultimi tre anni la Germania ha “rinunciato” a 95 miliardi di extra debito, che avrebbe potuto utilizzare per stimolare l’economia pur rispettando appieno il limite UE di un massimo di 3% di deficit in rapporto al PIL nazionale.
Il mantra della stabilità fiscale che ha caratterizzato il paese negli ultimi vent’anni rischia di diventare una zavorra per l’economia se applicato in maniera ideologica – eppure è precisamente la volontà di non spendere neppure un euro in più che ha spinto l’FDP, uno dei partiti nell’attuale coalizione di governo tedesca, a spingere il cancelliere Scholz a inaugurare l’attuale crisi di governo.
Certo, nella mente e nell’immaginario dei tedeschi sono probabilmente impresse a fuoco le conseguenze a cui può portare la dissolutezza nella gestione delle finanze pubbliche: solo 100 anni fa l’iperinflazione fu una delle cause del crollo della repubblica di Weimar e dell’ascesa del nazismo. Paradossalmente, però, oggi quella stessa paura potrebbe essere uno dei motivi della crescita del sostegno a partiti di estrema destra come l’AfD.
I trend esposti qui sopra sono ben catturati dall’indice di stress industriale europeo. L’indice include 16 variabili racchiuse in 6 macrocategorie, dai livelli di liquidità alla redditività degli investimenti. A pesare molto nell’ultimo periodo è la bassa capacità delle aziende europee di attrarre capitali, che insieme al peggioramento di alcuni indicatori di bilancio solleva dubbi sulla loro sostenibilità. Spingendo, dunque, ai tagli di personale e investimenti che stiamo vedendo oggi.
Tra le altre cose, il fatto che i maggiori costi energetici siano ormai diventati strutturali genera la necessità di interiorizzarli nella struttura dei costi aziendali. Ciò porta a riduzione dei dividendi e a una minore appetibilità delle aziende europee per gli investitori.
Inoltre, ai maggiori costi energetici si deve aggiunge il lungo periodo di tassi d’interesse elevati mantenuti dalle banche centrali per far tornare l’inflazione sotto controllo. Questo per un’azienda significa maggiori costi del debito e quindi un “razionamento” degli investimenti in attesa di momenti di espansione monetaria.
Come detto, indici di stress come questo tendono ad anticipare quelli che saranno i trend nell’economia reale. Il timore insomma è quello che il mix di perdita di competitività e perdita di quote di mercati esteri, che porta oggi alla sospensione della produzione o addirittura alla chiusura degli stabilimenti in Europa, sia destinato a durare ancora.
Per tutte queste ragioni, l’Unione europea si trova oggi davanti a una scelta: se, e quanto, chiudersi nei confronti della “minaccia” rappresentata da chi produce in paesi non europei. Sulle auto elettriche (EV) si può dire che questa scelta sia ormai stata presa: a ottobre il Consiglio dell’UE ha approvato l’entrata in vigore di dazi aggiuntivi tra il 17% e il 35% sulle EV prodotte in Cina.
Lo stesso Consiglio dell’UE ha però rivelato come sul tema l’Europa si sia spaccata. 10 paesi hanno votato a favore dei dazi (tra loro Italia, Francia e Polonia), 12 si sono astenuti (inclusi Spagna, Svezia, Austria e Grecia), mentre in 5 hanno votato contro (come Germania, Ungheria e Repubblica Ceca).
Il timore di paesi contrari all’imposizione dei dazi sulle auto elettriche è che una possibile guerra commerciale sulle auto possa comprometterne le esportazioni in Cina, in un periodo in cui queste ultime stanno già calando (vedi sopra), e che questo sia un danno persino maggiore rispetto all’avanzata delle auto cinesi in Europa.
Tuttavia, il 30 ottobre Pechino ha fatto la sua contromossa, chiedendo in via informale alle aziende dell’industria automobilistica nazionale di interrompere nuovi investimenti nei paesi europei che hanno votato a favore dell’imposizione dei dazi e di investire invece nei paesi che hanno votato contro. La scelta cinese potrebbe avere conseguenze dirette per l’Italia: Dongfeng potrebbe decidere di interrompere le trattative per aprire uno stabilimento di produzione nel nostro paese.
Fonte Ispi ISPI DataLab