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    Relazioni transatlantiche: due storie di crescita 

    Il divario economico dell’area euro rispetto al gigante nordamericano risale al doppio colpo della crisi finanziaria e del debito sovrano e alla inadeguata risposta di policy. Ma dal 2020 il mondo è cambiato: solo scelte audaci possono far recuperare il terreno perso.

    di Moreno Bertoldi

    Fonte ISPI   Istituto per gli studi di politica internazionale

    Nel XXI secolo il divario economico tra Stati Uniti ed Europa ha ricominciato a crescere. Come mostra la Tabella 1, non era stato così nei cinquant’anni precedenti. Inizialmente si era fortemente ridotto (1951-1973) per poi stabilizzarsi (1974-1998). Certo, se si guarda al tasso di crescita in sé, l’economia americana in termini assoluti si era espansa più rapidamente di quella dei Paesi che comporranno in seguito l’Eurozona-12 già nel periodo 1974-1998.1 Questo era però dovuto a un forte aumento della popolazione. Per comprendere la dinamica di un’economia in termini comparati è perciò più appropriato utilizzare come indicatore la crescita del reddito pro-capite, che offre una migliore valutazione della dinamica.  

    Nel XXI secolo il divario economico tra Stati Uniti ed Europa ha ricominciato a crescere. Come mostra la Tabella 1, non era stato così nei cinquant’anni precedenti. Inizialmente si era fortemente ridotto (1951-1973) per poi stabilizzarsi (1974-1998). Certo, se si guarda al tasso di crescita in sé, l’economia americana in termini assoluti si era espansa più rapidamente di quella dei Paesi che comporranno in seguito l’Eurozona-12 già nel periodo 1974-1998.[1] Questo era però dovuto a un forte aumento della popolazione. Per comprendere la dinamica di un’economia in termini comparati è perciò più appropriato utilizzare come indicatore la crescita del reddito pro-capite, che offre una migliore valutazione della dinamica.

    Tabella 1 – Tassi di crescita annua in %, media per periodo 

     1951–1973   1974–1998 1999–2024 
     USA Eurozona USA Eurozona USA Eurozona 
    PIL reale 4,1 5,5 3,1 2,2 2,3 1,4 
    Popolazione 1,4 0,8 1,1 0,3 0,8 0,3 
    PIL reale  
    pro-capite 
    2,6 4,7 2,0 1,9 1,5 1,0 

    Fonte: The Conference Board (1951-2014); US BEA ed Eurostat (2015-2024) 

    Dagli anni’50 al bivio degli anni Duemila 

    È interessante notare che nell’intera seconda metà del secolo scorso la produttività è cresciuta più rapidamente in Europa che negli Stati Uniti: anche nel periodo 1974-1998, pur in presenza della stessa dinamica nella variazione del reddito pro-capite, la produttività è cresciuta in media più rapidamente nei Paesi dell’Eurozona-12 (+2,5%) che negli USA (+1,4%). A quell’epoca la crescita americana è stata a più alta intensità di lavoro, mentre in Europa, sia a causa delle preferenze dei suoi lavoratori per una minore durata dell’orario di lavoro sia per un aumento della disoccupazione strutturale e del part-time, la crescita è risultata a più alta intensità di capitale, generando un maggiore aumento della produttività.  

    Tutto questo comincia a cambiare già nel corso degli anni ’90, quando la cosiddetta “nuova economia americana”, grazie alla diffusione di Internet, alla forte crescita dei settori ad alta tecnologia e alla razionalizzazione del sistema distributivo statunitense, dà nuovo slancio al PIL e soprattutto alla produttività. Gli anni ’90 sono però anni positivi anche per l’economia europea. Con la fine della Guerra fredda quest’ultima può beneficiare dei dividendi della pace e della forte espansione delle relazioni economiche con gli Stati dell’ex-blocco sovietico (molti dei quali ambivano a diventare rapidamente membri dell’Unione). Inoltre, si lancia nell’esperimento dell’Unione economica e monetaria (UEM), cosicché al momento dell’introduzione dell’euro inflazione e disavanzi pubblici vengono portati più o meno sotto controllo in tutti i Paesi che aderiscono all’UEM.  

    Quali sono le ragioni che hanno determinato l’accrescimento del divario nelle dinamiche di crescita e produttività tra Stati Uniti ed Eurozona (destinata poi ad allargarsi ad altri membri) nel corso del nuovo secolo (Figura 1), invertendo quanto successo nei decenni precedenti? 

    Figura 1 – Tassi di crescita annua in %, media per periodo 

    Fonte: The Conference Board (1951-2014); US BEA ed Eurostat (2015-2024) +

    Diversi economisti (da entrambi i lati dell’Atlantico) hanno sovente dato la colpa all’introduzione dell’euro. Poiché l’Eurozona non era un’area valutaria ottimale e poiché la politica monetaria era centralizzata, mentre la politica fiscale restava responsabilità dei singoli Stati membri, in assenza di una forte flessibilità nel mercato del lavoro, di un vero mercato unico dei beni e di un’unione bancaria e finanziaria, si creavano le condizioni per l’aumento degli squilibri al suo interno e per continue divergenze sulla politica economica da condurre tra i Paesi aderenti. In una tale situazione la crescita avrebbe ristagnato e l’aumento delle tensioni politiche avrebbe finito per portare a una frammentazione dell’Unione, se non addirittura a un conflitto tra i suoi membri.  

    In realtà la storia è più complessa. Debolezze nella governance dell’Eurozona hanno certo contribuito all’ampliamento del divario. Tuttavia, come vedremo, errori di politica economica, fattori strutturali e di specializzazione produttiva, nonché forti shock esogeni, hanno giocato un ruolo significativamente più importante. 

    In realtà, nel periodo che va dall’introduzione dell’euro fino alla Grande crisi finanziaria (GCF) la crescita pro-capite dell’Eurozona e degli Stati Uniti è più meno la stessa, prolungando la tendenza del quarto di secolo precedente. Tuttavia, in questo periodo si registra un’inversione nel tipo di performance delle due economie. In Europa diventa ad alta intensità di lavoro (anche grazie a importanti riforme nel mercato occupazionale e del welfare), il che produce però un rallentamento della produttività (segno che il blocco comunitario fatica a specializzarsi in produzioni altamente innovative e a diffondere le nuove tecnologie nel resto del sistema produttivo). Negli Stati Uniti, invece, la crescita viene trainata dagli aumenti di produttività: la nuova economia degli anni ’90, nonostante il boom and bust finanziario a cui dà luogo nel 2000-2001, si radica nel tessuto produttivo nazionale (Figura 2). 

    Figura 2 – Contributo annuo % al PIL per ora lavorata, media per periodo 

    Fonte: Real Instituto Elcano, AMECO +

    Bisogna però anche notare che in questo periodo importanti squilibri trainano entrambe le economie. Negli USA l’attività produttiva è “drogata” dalla guerra in Iraq, da una politica monetaria fortemente espansiva e da un boom dei consumi favorito dal crescente indebitamento delle famiglie (che lo finanziano con l’estrazione di valore – sovente fittizio – dall’immobiliare, grazie anche all’introduzione di nuovi prodotti finanziari complessi e potenzialmente destabilizzanti come i subprime). Oltreoceano, in Europa l’entrata nell’euro porta a una rapida e drammatica compressione dei tassi d’interesse nei Paesi con un debito elevato, che convergono al livello dei tassi tedeschi. Nonostante i mercati dei capitali restino segmentati, ciò conduce a un rapido afflusso di capitali nella periferia e a un conseguente aumento degli squilibri finanziari, rendendo quest’ultima vulnerabile a sudden stops.  

    GCF e crisi del debito sovrano: i nodi vengono al pettine  

    Sia gli Stati Uniti che l’Eurozona tra la fine del 2008 e la prima metà del 2009 devono fronteggiare una spirale depressiva. La risposta dei governi alla crisi è inizialmente robusta su entrambe le sponde dell’Atlantico: la politica fiscale viene di nuovo utilizzata per fini anti-ciclici, le banche centrali portano i tassi d’interesse in prossimità dello zero e fondi pubblici vengono iniettati nelle banche al fine di ricapitalizzarle. La ripresa che ne segue è però più sostenuta negli USA, che hanno introdotto uno stimolo fiscale più vigoroso (anche se insufficiente) e hanno adottato misure di politica monetaria non-convenzionale (per esempio, il quantitative easing) molto prima della Banca centrale europea, che, incomprensibilmente, nel 2011 alza i tassi d’interesse per ben due volte.  

    L’accentuazione del divario tra le performance economiche di Stati Uniti ed Eurozona è però soprattutto dovuta alla crisi europea del debito sovrano che segue la GCF. Si inizia in Grecia, che ha taroccato i propri conti pubblici, nella seconda metà del 2010, ma si diffonde rapidamente al resto della periferia dell’UEM, mettendo però anche a repentaglio la stabilità delle banche tedesche e francesi che avevano prestato abbondantemente a questi Paesi negli anni precedenti la GCF. La risposta europea alla crisi del debito sovrano si rivela fortemente inadeguata. Invece di considerarla una crisi dell’Eurozona, che deve essere affrontata da quest’ultima nel suo insieme, i leader degli Stati che sono impattati solo indirettamente da essa – in primis la Germania – impongono ai Paesi colpiti dalla crisi politiche di austerità pro-cicliche, che si traducono in una profonda recessione nella periferia e in un forte aumento della disoccupazione. La recessione nella periferia impatta però anche il centro, la cui crescita rallenta fortemente. Riflettendo sulla GCF e sulla crisi del debito sovrano, Mario Draghi nel suo discorso d’addio alla BCE notò che “gli Stati Uniti disponevano sia di un’unione dei mercati dei capitali che di una politica fiscale anti-ciclica. L’Eurozona non aveva un’unione dei mercati dei capitali e la sua politica era pro-ciclica”. 

    Le due crisi sopracitate spiegano praticamente per intero l’aumento del divario economico tra gli USA e l’Eurozona nei primi due decenni di questo secolo. E il loro impatto negativo sulla seconda si dimostrerà duraturo: è durante la crisi del debito sovrano che il tasso d’investimento produttivo degli Stati Uniti supera quello europeo e da allora quest’ultimo è rimasto al di sotto di quello americano. 

    Il “whatever it takes” di Draghi nel luglio 2012 pone di fatto fine alla fase più acuta della crisi del debito sovrano, che però termina veramente solo nel 2014.  

    Dal breve ritorno alla “normalità” ai nuovi shock 

    Negli anni che seguono, fino alla pandemia, Stati Uniti ed Eurozona riprendono a crescere a tassi simili. L’Europa si espande un po’ più velocemente fino all’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, chiudendo l’output gap che si era creato durante la crisi del debito sovrano. Tuttavia, essendo un’economia più aperta di quella statunitense, l’area dell’euro rallenta di nuovo a causa dell’incertezza legata alle guerre commerciali lanciate dal tycoon nel 2018. 

    La seconda fase dell’ampliamento del divario tra USA ed Europa avviene con la pandemia e l’invasione russa dell’Ucraina. Questa volta l’Eurozona adotta politiche fiscali e monetarie molto più appropriate, in grado di esercitare un’azione anti-ciclica e di evitare un aumento della frammentazione al suo interno. Grazie a questa risposta nel 2022 la crescita europea è addirittura più sostenuta, sia in termini assoluti che pro-capite, di quella statunitense, nonostante in quest’ultima lo stimolo fiscale sia stato più ampio (Figura 3).  

    Figura 3 – Disavanzo pubblico in % del PIL 

    Fonte: Fondo monetario internazionale +

    Ma gli shock esogeni (in primis quello energetico legato alla crisi in Ucraina) e la specializzazione produttiva giocano a sfavore dell’Eurozona. Nel 2023 e 2024 la sua economia ristagna, mentre gli USA hanno continuato a crescere in modo robusto, trainati dalla rivoluzione digitale e dalla forte dinamica dei consumi (lo scontento popolare nei confronti dell’inflazione non si è evidentemente tradotto in una riduzione dei consumi).  

    Recentemente i rapporti Draghi e Letta hanno analizzato lucidamente le ragioni per cui la crescita dell’Unione europea resti subottimale e inferiore a quella statunitense. Inoltre, hanno individuato alcune delle misure chiave che dovrebbero essere prese per rivitalizzare l’economia europea. 

    Tuttavia, le risorse disponibili sono scarse anche perché, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca e il probabile conseguente disimpegno degli USA dalla NATO, si è creata la necessità di aumentare le spese per la difesa. Se nel breve periodo tali spese possono aumentare la domanda effettiva ed eventualmente mitigare l’impatto di una possibile guerra commerciale con Washington, si tratta comunque di spese con ricadute limitate sulla produttività del sistema economico, tranne forse nei casi degli investimenti in ricerca e sviluppo e della produzione di beni con un uso duale (militare e civile). Il rischio da evitare è che le accresciute spese per la difesa spiazzino gli investimenti necessari per la transizione digitale e quella ecologica previsti nel Rapporto Draghi. Se l’UE non riesce a mobilitare almeno parte di quegli 800 miliardi annui in nuovi investimenti preconizzati da Draghi e riportare il tasso d’investimento produttivo al di sopra di quello americano, è difficile vedere come il processo di convergenza con gli Stati Uniti possa riprendere. 

    L’ampliamento nel divario della crescita tra le due sponde dell’Atlantico in questo secolo non è tanto dovuto alla creazione dell’euro, ma alle politiche economiche sbagliate introdotte in alcuni frangenti decisivi (soprattutto durante la crisi del debito sovrano) e più recentemente agli shock esogeni e alla specializzazione economica dell’Eurozona. La risposta offerta nel corso della pandemia con NextGenerationEU ha mostrato che gli effetti più nefasti della crisi del debito sovrano avrebbero potuto essere mitigati e forse in parte evitati poiché erano dovuti all’adozione di politiche sbagliate, ispirate a vecchie ortodossie che condussero a un’austerità pro-ciclica: il risultato fu di rallentare la crescita, scoraggiare gli investimenti e, paradossalmente, aumentare il debito pubblico dell’Eurozona (Figura 4).  

    Figura 4 – Debito pubblico in % del PIL 

    Fonte: Fondo monetario internazionale +

    Ciò non toglie però che l’incompletezza dell’architettura dell’UEM abbia contribuito ad aggravare i periodi di recessione e a rallentare quelli di ripresa, con ripercussioni negative sui tassi d’investimento pubblici e privati.  

    Può l’Europa riguadagnare parte del terreno perduto?  

    Nonostante tutto, l’aumento del divario con gli USA non è né inevitabile né irreversibile, ma la sua riduzione non sarà facile. Vi sono due dinamiche distinte in gioco: da una parte la performance degli Stati Uniti e dall’altra quella dell’Eurozona.  

    I primi con Trump si sono lanciati in un grande e caotico esperimento. Le guerre commerciali, unitamente a una trasformazione radicale del governo federale, stanno creando una forte incertezza, che potrebbe non solo condurre a un significativo rallentamento economico nel breve periodo, ma anche a una più duratura perdita di dinamismo, aggravata da un debito pubblico in continuo aumento. Inoltre, un capitalismo clientelare (plasticamente rappresentato dalla promozione di Tesla da parte di Trump nel giardino della Casa Bianca) si sta diffondendo, mentre in parallelo viene consentito che imprese, soprattutto nel settore dell’high tech, sviluppino posizioni monopolistiche. Nel medio-lungo periodo questi fattori possono ridurre significativamente il potenziale di crescita dell’economia americana, consentendo, ceteris paribus, all’Eurozona di limitare la divergenza o anche recuperare parte del terreno perduto.  

    La riduzione del divario dipenderà però anzitutto dall’Europa, che si trova di fronte all’ora della verità. Imparando dagli errori (ma anche dai successi) del passato, i leader europei devono portare a compimento la riforma della governance dell’UE e dell’UEM, aumentare il bilancio comunitario, dotarsi di una capacità fiscale centralizzata e di una vera politica industriale e, infine, completare l’Unione bancaria, il Mercato dei capitali e il Mercato unico.  

    In questo modo l’Eurozona potrà dotarsi di una politica macroeconomica che sia anti-ciclica sia nelle fasi recessive sia nelle fasi espansive del ciclo e utilizzare efficacemente i risparmi generati in seno all’Unione in modo da finanziare l’investimento produttivo e innalzarne il suo livello. Questo, unitamente alla mobilitazione degli investimenti pubblici preconizzati dal Rapporto Draghi, renderà possibile mobilitare risorse per le priorità tecnologico-produttive del blocco, che sono necessarie per accelerare la crescita della produttività e riprendere il processo di convergenza iniziato nella seconda metà del secolo scorso.  

    Vaste programme!Al riguardo, ci sono alcuni segnali positivi sia a livello europeo (per esempio, per quel che riguarda la realizzazione di alcune delle proposte contenute nei rapporti Draghi e Letta) sia in provenienza dalla Germania, che, messa di fronte alla sfida trumpiana e alla crisi del proprio modello produttivo, sembra finalmente pronta a imboccare una strada diversa da quella del passato. Tuttavia, tali sviluppi non possono che essere l’inizio di un processo (e non il suo punto di arrivo), in particolare in presenza di una situazione internazionale politicamente ed economicamente molto difficile e complessa.  


    [1] L’Eurozona-12 comprende i 12 Stati membri dell’Unione europea (sui 15 totali ai tempi prima dell’allargamento nel 2004) che adottarono la moneta unica tra il 1999 e il 2001, vale a dire: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna. L’Eurozona, oggi arrivata a 20 membri, è oggetto di questa analisi.

    Moreno Bertoldi

    ISPI Senior Associate Research Fellow

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